Terminal di Alyeska
Trascorsero venti interminabili minuti, con il ticchettio dell’orologio appeso al muro che sembrava il battito del cuore di un moribondo. La telefonata di Mercer a Elmendorf aveva garantito la disponibilità di due elicotteri Huey, ciascuno con a bordo un commando di otto uomini addestrati. Fedele alla sua parola, Dick Henna aveva allertato le alte cariche di Washington. Andy Lindstrom aveva chiamato uno dei piloti a disposizione del terminal di Alyeska, un cowboy che non vedeva l’ora di farsi un bel volo fino alle stazioni di pompaggio. Li aspettava all’aeroporto municipale di Valdez trenta minuti dopo. Mercer e Lindstrom stavano aspettando che Collins chiudesse la telefonata, quindi sarebbero andati a chiedere un aggiornamento a Mossey sui suoi progressi nella riattivazione del sistema operativo.
Dieci minuti prima dell’ora dell’appuntamento con il pilota, finalmente Collins riapparve dal suo ufficio con un’espressione cupa e provata. Aveva lo sguardo spento e vitreo. La pallottola di tabacco che teneva nella guancia sinistra era grossa come una palla da tennis.
“Non riesco a contattare le stazioni cinque e sei. Ho provato con il telefono, con la radio a due vie e con le onde corte. Persino il fax. Nessuna risposta.”
“Come sarebbe a dire, nessuna risposta? Non li hai mandati tutti a Fairbanks, vero?” chiese Lindstrom, in preda al panico.
“Certo che no, mi credi scemo?”
“Smettetela.” Mercer individuò in quello scambio l’inizio di una sessione di scaricabarile e la bloccò sul nascere. Non aveva né la pazienza né il tempo per quelle stupide schermaglie burocratiche.
“Abbiamo un problema enorme per le mani e non c’è il tempo per stare qui a puntare il dito qua e là.”
Era di nuovo lui a prendere le decisioni per Lindstrom e Collins, e di nuovo i due uomini ubbidivano senza discutere. “Andy, voglio che tu rimanga qui a coordinare le comunicazioni. E occupati del tuo mago del computer. È fondamentale che tu riprenda il controllo del sistema. Mike, noi due andiamo alla stazione di pompaggio numero cinque. Le verifiche sul campo sono un punto cruciale. L’elicottero è attrezzato per comunicare con Elmendorf?”
“Non lo so” ammise Collins. Passò la palla di tabacco all’altra guancia, mentre sulle labbra gli spuntava della saliva giallastra. “Devi chiedere a Ed, il pilota.”
“E allora andiamo a parlare con Ed.” Se Mercer provò una qualche esitazione, non lo diede a vedere. Si stava muovendo nel territorio dell’intuizione pura e aveva imparato a fidarsi e a non fare domande.
Quando arrivarono all’aeroporto, la notte era scesa con disinvoltura, oscurando completamente il cielo. La pioggia, che aveva continuato a cadere per tutto il pomeriggio, si era finalmente fermata lasciando gli alberi inzuppati e pesanti. Sarebbe bastato un soffio di brezza per far cadere a terra un altro scroscio d’acqua. Ma quella sera non erano previste brezze leggere. Un vento battente spazzava lo spazio aperto, con raffiche così forti da far barcollare Mercer. Solo soletto in mezzo ai Cessna 182, ai Twin Otters e a un jet privato, il Bell JetRanger piazzato a una quarantina di metri dal terminal e illuminato dalla luce artificiale sembrava un insetto gigante. Una sagoma scura stava appoggiata con nonchalance al parabrezza angolato, con le braccia incrociate sul petto.
Il pilota poté vedere chiaramente i suoi passeggeri che si avvicinavano illuminati dai fari molto prima che loro si accorgessero della sua presenza. Guardò meglio nel fascio di luce che veniva dal terminal e rise selvaggiamente quando riconobbe uno dei passeggeri.
“Non ti azzardare ad avvicinarti di un solo passo, Mercer!” lo ammonì il pilota con una voce da baritono. Era un afroamericano. “L’ufficiale della Corte Suprema ha detto che ho il diritto di prenderti a calci in culo se ti avvicini a meno di dieci metri.”
“Eddie?” chiamò Mercer. “Eddie Rice?”
“E chi altri, bianco di merda, e non sto scherzando. Stai lontano da me. Ti porti dietro un sacco di guai e non voglio che tu mi venga tra i piedi un’altra volta. Il mio libretto di volo era perfetto fino a che tu non sei malauguratamente entrato nella mia vita, e vorrei che ci rimanesse quel solo incidente fino a quando mi regalano l’orologio d’oro della pensione.”
“Se ti regalano un orologio d’oro te lo vendi per una cassa di whisky, Eddie. Bevi ancora quando sei in volo?” Gli rispose Mercer, camminando appena davanti a Collins.Lui e Eddie Rice si abbracciarono come due amici che pensavano che non si sarebbero rivisti mai più. Anche se era infagottato nella tuta da volo, si capiva che Eddie aveva una corporatura forte e muscolosa. Non era alto come Mercer, ma aveva le spalle ampie e il collo robusto come il tronco di un albero. Era un bell’uomo, con il fisico e il fascino di uno sportivo. Aveva la pelle liscia e uno sguardo profondo e luminoso, con una venatura scura nell’occhio destro che spiccava sul bianco quasi azzurro. L’unico tratto esteticamente poco gradevole erano i denti, piccoli e ingialliti, troppo vicini in alcuni punti e troppo distanziati in altri.
Un anno prima, quando era luogotenente in marina, Eddie si trovò a guidare un Sikorsky Sea King durante l’assalto anfibio alla Inchon. Aveva avuto la sfortuna di traghettare Mercer dalla portaerei Kitty Hawk alla Inchon durante la crisi delle Hawaii. Mercer aveva sequestrato l’elicottero di Rice, ordinandogli di volare alle Hawaii per prevenire un’invasione catastrofica che avrebbe messo in ginocchio per sempre gli Stati Uniti. Mentre fuggivano dopo aver scongiurato il lancio di un missile nucleare, Mercer, Eddie e uno scienziato russo di nome Valery Borodin erano stati costretti ad ammarare in emergenza l’elicottero nel Pacifico settentrionale. Eddie era quello che aveva riportato le ferite più gravi e aveva trascorso i tre mesi successivi all’ospedale della marina di Pearl Harbor. Le ultime notizie che Mercer aveva avuto su di lui dicevano che la marina aveva dato a Rice una onorevole buonuscita e che lo avevano inserito in un piano previdenziale per invalidi che gli avrebbe consentito di vivere serenamente. Mercer sarebbe stato meno sorpreso di trovarsi davanti Nanook del Nord che Eddie Rice, pensionato della Marina Militare degli Stati Uniti.
“Ti informo che sono già venti minuti che non bevo” gli rispose Rice. Durante il loro volo disperato dalle Hawaii, mentre cercavano di individuare un sottomarino russo coinvolto nel complotto, Mercer aveva offerto a Eddie una birra che il pilota aveva accettato con gratitudine, dopo aver ponderato che le probabilità che aveva di doversi sottoporre a un controllo del tasso etilico da vivo erano prossime allo zero. Era uno dei tanti aneddoti su cui i due uomini avevano scherzato quando erano in ospedale insieme. L’anno prima per Natale Mercer aveva ricevuto da Eddie una bottiglia di birra Sapporo, la stessa marca che avevano bevuto durante quel fatidico volo.
“Cosa ci fai qui?” chiese Mercer.
“Potrei farti la stessa domanda, cazzo. Ho ricevuto una chiamata per un volo di emergenza mentre ero di riposo e chi mi trovo davanti? L’uomo più pericoloso che abbia mai incontrato. E tu? Cosa c’è stavolta?”
“Ti ricordi che in quell’intrigo delle Hawaii c’era di mezzo un russo? È tornato, e in questo istante potrebbe trovarsi a poche ore di distanza da noi, verso nord.”
“Chi? Quell’Ivan Keri-qualcosa? Mi stai prendendo per il culo?”
“Magari.”
“Oh cazzo. Quello è come Tonton Macoutes e Baron D’Mort messi insieme” disse Rice recuperando i personaggi della cultura hawaiana che avevano terrorizzato sua madre, il capo della polizia segreta e una delle figure oscure del voodoo.
“Aggiungi anche Jack lo squartatore e ci siamo quasi.”
Qualche istante dopo, la pressione sulle slitte di atterraggio venne allentata, e la flessione dei montanti sembrò contribuire alla spinta verso l’alto. La valle del Tickel si trasformò subito in una sottile fessura nel terreno, mentre l’elicottero prendeva rapidamente quota.
Mercer era seduto al posto del copilota mentre Collins era nel sedile posteriore con i piedi allungati che arrivavano quasi in cabina. Tutti e tre indossavano le cuffie cosicché le loro conversazioni suonavano impersonali e interrotte. Le spie dei comandi e degli strumenti creavano una luce verdastra.
Le luci montate sul muso del JetRanger lanciavano solitari lampi di luce nel buio pesto della notte.
“Allora, cosa sta succedendo?” chiese Eddie dopo che ebbe posizionato l’elicottero sulla rotta prestabilita.
“Un paio d’ore fa ho mandato degli uomini dalle stazioni di pompaggio numero cinque e sei giù a Fairbanks,” rispose Mike Collins, tenendo il microfono troppo vicino alla bocca e producendo un rumore confuso. “Sono rimasti tutti uccisi in un incidente, due furgoni pieni di ragazzi che conoscevo da anni. E poi, circa quaranta minuti fa, abbiamo perso ogni contatto con gli altri uomini che avevo lasciato alle stazioni cinque e sei.”
“C’entra qualcosa la manifestazione al deposito delle attrezzature di cui ho sentito parlare al telegiornale?”
“Sì” rispose Mercer. Collins si sporse in avanti, infilando la testa tra i due sedili anteriori. “Si direbbe che voi due sappiate qualcosa di speciale su quello che sta succedendo, e credo che sia ora che me ne parliate. Ho perso parecchi uomini stasera, e qualcosa mi dice che ci saranno altri morti. Sapete qualcosa che non mi state dicendo e porca puttana ho il diritto di sapere.”
“Cos’è successo al capitano della Petromax Arctica?” rispose Mercer.
“Cosa?”
“Il capitano incaricato del comando della Petromax Arctica è stato sbarcato dalla nave, portato in elicottero ad Anchorage e poi trasferito a Seattle a bordo di un volo privato pagato da Max Johnston in persona. E hai un’idea del motivo per cui la nave è arrivata all’attracco con diverse ore di ritardo? Se si sono sobbarcati il costo del trasferimento di Albrecht dalla petroliera, non ti viene da pensare che lo abbiano fatto per evitare ritardi alla nave? E allora, perché la Arctica è arrivata in ritardo? Che cazzo stava facendo una nave VLCC vuota a zonzo nel golfo dell’Alaska senza un capitano mentre c’era un attracco pronto a riceverla?”
“Cosa stai dicendo? Quella faccenda non c’entra niente. La Petromax Arctica è arrivata molto prima che…” Mercer lo interruppe bruscamente prima che potesse finire la frase.
“Rispondi alla mia domanda e capirai.”
“Harris Albrecht è stato portato da uno specialista di traumatologia di Seattle, un chirurgo esperto in amputazioni, che riattacca gli arti staccati o prepara i monconi per il montaggio delle protesi.”
“Lo avete verificato, quel dottore?” Mercer si voltò completamente in modo da trovarsi faccia a faccia con Collins.
“Quando è successo ho fatto un paio di telefonate.”
“E…?” chiese alzando un sopracciglio.
“La sua specialità è la riparazione dei tessuti nei casi di assideramento. È uno dei più noti…” Collins si zittì improvvisamente.
I rotori turbinavano sopra le loro teste con un tale frastuono che coprivano il suono della turbina del JetRanger. Eddie mantenne l’elicottero in assetto, ignorando l’impulso a tuffarsi nella valle e a volare rasoterra come gli avevano insegnato durante la sua vita militare. Nella guerra del Golfo aveva guidato i Marine nelle ricognizioni sulle regioni più torride, e quello stile di volo non lo aveva mai abbandonato.
Mercer parlò. “Quante volte la Arctica ha attraccato ad Alyeska senza che ci fossero incidenti nell’arco dell’ultimo anno? Quante volte Harris Albrecht ha infilato la petroliera nella darsena senza battere ciglio? Mi dici come ha fatto a perdere un braccio e ad avere bisogno di un esperto in assideramento degli arti durante un normalissimo trasferimento da Long Beach in California a Valdez, Alaska? Ha contrabbandato l’azoto liquido in Alaska sotto il vostro naso. Ma durante l’ultimo viaggio, qualcosa è andato storto.”
“Non mi dirai che pensi che le due cose siano collegate?”
Mercer gli lanciò un’occhiata inviperita. “Cristo, certo che lo sono. Secondo te perché mi trovo su questo elicottero con un pazzo al posto del pilota invece di starmene a casa a farmi un drink nel bar del quartiere? Mike, Howard Small è morto, suo cugino è morto, e anche il figlio di suo cugino. Qualcuno mi ha sparato perché abbiamo trovato la barca che trasportava le bombole di azoto liquido dalla Petromax Arctica alla costa. Kerikov e la PEAL stanno cercando di coprirsi facendo fuori tutti quelli che sono incappati per sbaglio in questa operazione. E il problema informatico? Non è una coincidenza, nonostante quello che dice il vostro tecnico. E i disordini al deposito, l’incidente dei furgoni? Qualsiasi cosa Kerikov abbia progettato si sta realizzando proprio in questi istanti!”
Non aveva previsto di esplodere in quel modo, non era nel suo stile, ma la tensione lo stava consumando e aveva la sgradevole sensazione che fosse già troppo tardi. Non era arrabbiato con Mike Collins per non aver riconosciuto il pericolo, era furioso con se stesso per non averlo riconosciuto abbastanza rapidamente. Quando Aggie Johnston gli aveva detto che il suo ragazzo era partito per una missione misteriosa, avrebbe dovuto agire immediatamente, chiamare la cavalleria e ordinare una ricerca in tutto il paese per trovare il leader della PEAL. Era sicuro che nella stessa rete avrebbero pescato anche Kerikov e quel volo disperato non sarebbe stato necessario.
“Eddie, qual è il nostro orario previsto di arrivo alla base aerea di Elmendorf?”
“Non lo so, ho preparato il piano di volo per Fairbanks, cosa c’è a Elly?”
“Un paio di elicotteri da combattimento e qualche soldato che non vede l’ora di entrare in azione.” Gli rispose Mercer con un ghigno. “Non esiste che mi sparino di nuovo.”
“E così sia, fratello.” Rice sorrise, con i denti che sembravano iridescenti nel bagliore della cabina. “Direi che con queste condizioni saremo là tra un’ora e dieci minuti.”
“Appena puoi mettimi in contatto radio con loro. Stanno aspettando la mia chiamata.” Mercer assunse quindi un tono più disteso. “E tua moglie cosa ne dice? Si trova bene a vivere qui?”
“Non vive qui” rispose Rice addolorato. “Ci siamo lasciati quando ero ancora in ospedale. Si direbbe che il dottore di Pearl Harbor non si prendesse cura solo di me.”
“Mi dispiace, amico.”
“Ah, merda. La vita va avanti, no? E poi, un uomo nero quassù? Trovo più gnocca di quanta ne riesca a gestire.” Gli era già tornato il sorriso, anche se nella sua voce c’era una punta di amarezza.
Un’ora dopo, Anchorage apparve azzurra e sfumata sotto il JetRanger. Le acque del Cook Inlet erano nere come l’inchiostro. La tempesta che aveva imperversato su Valdez nel pomeriggio si era spostata verso nord e stava colpendo Queen City. La pioggia scrosciava sull’elicottero colpendo il parabrezza con una tale violenza che sembrava che a colpire il plexiglas fossero dei sassi. Le spazzole trasformavano il torrente di pioggia in rigagnoli arcuati che si dispiegavano su tutto il loro campo visivo. Il vento colpiva l’elicottero facendolo sbandare pericolosamente, nonostante gli sforzi di Eddie. Non si scusò per i disagi del volo. Il suo volto era teso e concentrato, le mani e i piedi si muovevano sapientemente sui comandi come in un balletto. Un pilota meno abile di lui quella sera si sarebbe rifiutato di volare.
“Alyeska volo uno-undici, vi vediamo sul radar a dodici miglia, a tre-zero-cinque gradi.”
“Roger, Elmendorf” confermò Eddie. “ETA tra cinque minuti. Avvicinamento a tre-dieci, atterraggio a zero-due-due-zero. Confermate.”
“Confermato, uno-undici.”
“Sai cosa stai facendo, vero?” disse Mercer prendendo in giro Rice.
“Non ne ho idea.”
Quattro minuti e quaranta secondi più tardi Eddie fermò il Bell JetRanger sull’asfalto di fianco a un enorme hangar in metallo ondulato. I due elicotteri Huey UH-1 per il trasporto dei militari erano posizionati accanto al punto in cui la torre di controllo aveva guidato l’elicottero di Alyeska, e in quella foschia la loro sagoma era inquietante. I portelli laterali erano aperti, rivelando le pesanti mitragliatrici M-60 montate a bordo. Ancora prima che le pale del JetRanger si fermassero, i tecnici stavano già affollandosi attorno al velivolo, ignari della pioggia gelida che sferzava l’aviosuperficie. Un camion di carburante si avvicinò di lato e due uomini approntarono l’allaccio del tubo all’elicottero.
Mercer sbucò dal JetRanger, precipitandosi a ripararsi nell’hangar, con gli scarponi che sollevavano alti spruzzi dalle pozzanghere dell’asfalto. Uno spiffero ghiacciato gli si infilò sotto il collo della giacca di pelle e nel tragitto gli sembrò che gli si congelassero le mani.
Il riscaldamento dell’enorme costruzione lenì il gelo dalla pelle esposta, ma nel corpo Mercer sentiva il freddo misto alla paura e all’apprensione. Due F-15 Strike Eagles dominavano lo spazio con la loro forma triangolare, le code appaiate che si alzavano a quasi sei metri dal pavimento lucido. Dietro di loro, sul fondo dell’hangar, un gruppo di uomini aspettava pazientemente, con i volti anneriti per mimetizzarsi meglio e i fucili da assalto M-16A1 tenuti con destrezza nelle mani coperte da mezzi guanti. Non prestarono molta attenzione a Mercer che si avvicinava, accontentandosi di liquidarlo con un’occhiata prima di tornare a dedicarsi al loro compito abituale di controllare e ricontrollare le attrezzature. Mercer continuò ad avanzare verso di loro e finalmente un uomo si scostò dal gruppo.
Era basso e tarchiato, con i capelli a spazzola e la faccia che reclamava una bella rasatura. Le sopracciglia erano un fitto groviglio di peli che si incontravano alla base del naso aquilino. Aveva occhi scuri e circondati da rughe, ma Mercer notò che erano attenti e veloci. La bocca era insolitamente piena e sensuale.
“Colonnello Knoff?”
“Lei deve essere Mercer.” Farsi stringere la mano da Knoff era come infilarla nel meccanismo di una macchina agricola: esercitava una pressione continua e spietata. Mercer considerò per un attimo la possibilità di contraccambiare, ma capì che non si trattava di una prova di virilità, bensì della stretta abituale di Knoff. “Devo dire che lei ci ha colti un po’ di sorpresa. Un’ora fa stavo guardando un film porno con i ragazzi, e un attimo dopo sono al telefono con il generale Samuel Kelly, il capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare. Non oso chiedermi chi lei sia per poter arrivare tanto in alto.”
A Mercer l’atteggiamento di Knoff piacque subito. Non era il tipo di soldato che guarda dall’alto in basso chiunque non indossi un’uniforme. Era chiaro che aveva ben presente di essere stato addestrato per servire i civili. “Lo chieda a qualsiasi politico e le confermeranno che sono l’uomo più potente del paese.” Mercer sorrise. “Sono un contribuente americano.”
“Le dispiace spiegarmi cosa sta succedendo?”
Mercer comprese che la curiosità di Knoff scaturiva soprattutto dalla preoccupazione che provava per i suoi uomini, ma non c’era tempo per discutere. Doveva farli agire in fretta.
“Colonnello, se sono riuscito a convincere i suoi superiori dell’importanza di questa missione, le chiedo di fidarsi della loro valutazione e di tirare dritto. Potrebbe essere per lei una perdita di tempo, ma se non lo è, se ho ragione io, ci troveremo a dover atterrare in un bel casino. Non posso darle un quadro completo, ma ho bisogno di sapere se lei ha delle domande di natura tattica sull’operazione di stanotte. Se non chiede adesso, qualcuno dei suoi ragazzi potrebbe non fare ritorno.”
“Signor Mercer, non si preoccupi per noi.” Il manico di scopa che Knoff aveva al posto della spina dorsale si fece ancora più dritto, se mai era possibile. “Il generale Kelly ci ha istruiti su quello che dobbiamo aspettarci. Quello che mi preoccupa è la sua presenza e quella del suo pilota da strapazzo nella nostra squadra. I miei piloti non conoscono il suo uomo, e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un elicottero civile che vola nella stessa zona in cui stiamo per sferrare un attacco pesante.”
Mercer si aspettava un commento di quel genere, e con la sua risposta offrì a Knoff le rassicurazioni di cui aveva bisogno. “Ho volato con questo pilota durante la crisi delle Hawaii dell’anno scorso. È un ex marine e un veterano della Guerra del Golfo. Pensiamo di tenerci un paio di miglia dietro di voi e di monitorare l’atterraggio via radio. Siete voi a essere pagati fior di quattrini per farvi sparare addosso, non noi. Dica al suo capo pilota di dare istruzioni al mio uomo. Le seguirà alla lettera.”
“E lei? Che tipo di esperienza ha?” chiese Knoff.
“Lei è stato in Iraq?” Knoff fece cenno di sì. “Io ci sono stato varie volte prima che ci arrivassero i carri armati Abrams. Sono stato specialista delle ricognizioni per la Delta Force, ho accompagnato un commando che doveva verificare che voi ragazzi durante le battaglie non vi trovaste davanti una bomba nucleare. Ho visto più combattimenti di tutti i suoi uomini messi insieme e potremmo passare la serata a fare a gara per chi ha più cicatrici, ma non ho tempo. C’è qualcos’altro?”
Knoff fu colto alla sprovvista dalla risposta di Mercer. La comunità delle Forze Speciali, sebbene attraversata da ataviche rivalità di corpo, era molto unita e i racconti di azioni segrete circolavano liberamente in versione annacquata per evitare di compromettere altre missioni segrete in corso. Dalla reazione di Knoff si capiva che aveva già sentito parlare dello specialista delle ricognizioni e che aveva saputo che in quell’occasione le débacle si era trasformata in un successo per l’intervento di un civile che aveva permesso di salvare la vita della maggior parte dei soldati che avrebbero dovuto proteggerlo. “No, signore. È più che sufficiente. Ho le coordinate delle stazioni di pompaggio e ho ricevuto via fax da un certo Lindstrom una piantina della zona. Credo che le colpiremo entrambe simultaneamente.”
“Negativo” replicò Mercer senza scomporsi. “Se dividiamo le vostre forze ci troveremo in svantaggio sia di armi che di uomini, e per quando arriveremo avrò saputo quale delle stazioni è stata presa.”
“Bene.” Knoff non aveva altre domande.
“Andiamo” disse Mercer ostentando più coraggio di quello che aveva.
***
Ivan Kerikov si accomodò in una sedia dietro la console di comando della pompa, con una Heckler & Koch MP-5 sulle ginocchia. I cadaveri dei pochi dipendenti del terminal di Alyeska rimasti alla stazione di pompaggio erano già stati portati fuori. Si tolse il pesante cappotto e considerò la possibilità di togliersi anche il maglione nero che portava sotto. Alla fine degli anni settanta era stato inserito in un commando del KGB come ufficiale dei servizi segreti. Durante l’addestramento dovettero riconquistare una stazione di pompaggio del gas in mezzo alla Siberia occupata da un gruppo di terroristi. Non aveva mai più dimenticato la desolazione di quella stazione persa nella tundra né lo squallore e il freddo insopportabile dell’edificio. Aspettandosi di trovare qualcosa di simile anche in Alaska, si era vestito a strati, decisamente troppo per l’assalto alla stazione di pompaggio numero cinque.
Fino ad allora, l’abbigliamento eccessivo era l’unico calcolo che non aveva azzeccato.
Da quando era arrivato in Alaska era stato perseguitato da contrattempi, ritardi e da mille altri problemi. Li aveva gestiti tutti a modo suo. Se il problema è meccanico, sostituire il pezzo; se è un problema temporale, fermare tutto, e se è un problema causato da esseri umani, uccidere. Ma in quel momento tutto il suo lavoro di preparazione lo stava ampiamente ripagando. Grazie all’ex capitano della Petromax Arctica e agli attivisti della PEAL c’erano milleottocento tonnellate di azoto liquido piazzate nei punti strategici dell’oleodotto dell’Alaska. Le stringhe erano state costruite in modo da evitare che il fluido superfreddo congelasse prematuramente la condotta, ed erano camuffate come le camicie di metallo che rivestivano i tubi di acciaio al carbonio alti un metro e venti. Le batterie di azoto erano così ben fatte che neanche un’ispezione ravvicinata da parte degli operatori di Alyeska sarebbe bastata a distinguerle dalle normali stringhe di camicie. Kerikov si era persino preoccupato di lasciarle all’aperto in modo che fossero segnate dal tempo come i tubi della condotta, vecchi di venticinque anni. Agli occhi degli ispettori, la misura leggermente più grande delle batterie non aveva destato alcun sospetto, e alcune di esse erano state posizionate diversi mesi prima.
L’idea di utilizzare la PEAL era stato il vero colpo da maestro di Kerikov. Ma mentre se ne stava lì seduto al quadro comandi della stazione, si concesse un altro momento di autocelebrazione e si disse che il vero colpo da maestro era stata proprio quella idea. Hasaan Bin-Rufti si era mostrato sospettoso nei confronti del piano di Kerikov. Avrebbe voluto usare i suoi per portare a termine la delicata operazione di posa delle batterie di bombole di azoto, ma Kerikov aveva obiettato che cinquanta arabi in giro per l’Alaska avrebbero destato troppi sospetti. Mentre un gruppo di ambientalisti, diffusi in tutti gli Stati Uniti soprattutto in seguito all’annuncio del Presidente sullo sfruttamento del Rifugio Artico, non avrebbe dato minimamente nell’occhio, e non avrebbe di certo fatto scattare l’allarme. Proprio come ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe, potevano nascondersi sotto il naso di tutti e protestare in diversi luoghi e in varie città lungo il percorso della condotta mentre i loro compagni si occupavano della condotta.
Il bello della PEAL era anche che i suoi membri non erano al corrente dei secondi e torbidi fini di ciò che stavano facendo. Jan Voerhoven e la sua banda di satelliti vagabondi non avevano capito che il loro sabotaggio andava ben oltre i confini della protesta ambientalista. Credevano ingenuamente che quando l’azoto liquido fosse stato rilasciato avrebbe congelato il petrolio nei tubi e avrebbe impedito per sempre alla Trans-Alaska Pipeline di trasportare il greggio. Ci credevano perché era quello che Kerikov aveva detto loro e perché era quello che volevano credere. Nessuno di loro aveva mai pensato che congelare la condotta rappresentava solo un sabotaggio temporaneo al terminal di Alyeska e all’apertura allo sfruttamento del Rifugio per la Fauna Artica.
Voerhoven era il peggiore di tutti. Era intelligente e probabilmente aveva il quoziente di intelligenza di un genio, per quel che ne sapeva Kerikov, ma era completamente accecato dal suo ego ingombrante. Ivan Kerikov lo aveva trasformato da membro di un gruppo di pazzoidi a forza trascinatrice nella lotta all’industrialismo, ma Voerhoven era convinto di aver fatto tutto da solo. Vent’anni al servizio del KGB in varie funzioni avevano insegnato a Kerikov a manipolare le persone. A volte serviva del denaro, a volte invece la paura. Con Jan Voerhoven era bastato gratificare il suo ego e lui si era lanciato al galoppo. Quando la PEAL aveva iniziato a posizionare le batterie di bombole attorno alla condotta, Voerhoven si era autoconvinto che l’idea di quell’attacco fosse sempre stata sua.
“Signore” disse uno degli uomini di Kerikov entrando nella sala di controllo con un sottile strato di neve sulle spalle, “ci vorranno altre due ore per sistemare le batterie di azoto.” Parlava in russo con un forte accento tedesco, e nella sua voce c’era un tono di scuse. “Le informazioni che avevamo non dicevano che la condotta nel punto di arrivo alla stazione è sollevata al di sopra del terreno. Abbiamo solo due camion con la gru e questo rallenta di parecchio il lavoro.”
La sensazione di autogratificazione di poco prima svanì in un lampo.
Le ultime batterie, che erano la chiave di volta di tutta l’operazione, erano andate perdute quando una di esse si era aperta durante il trasferimento dalla Arctica alla Jenny IV. Il capitano Albrecht aveva avuto un braccio inondato di azoto a centoventi gradi sotto zero che gli si era completamente congelato. Nella confusione che seguì l’incidente, a bordo della Jenny IV era scoppiato un incendio. L’equipaggio della barca non era riuscito a spegnerlo prima che facesse bollire il contenuto delle bombole criogeniche che erano già state portate a bordo. L’esplosione aveva lasciato quasi intatta la barca da pesca, ma JoAnn Riggs aveva assicurato a Kerikov che il guscio avrebbe galleggiato per un’altra ora al massimo dopo essere stata abbandonata dalla petroliera. Naturalmente la Jenny IV non era affondata ed era stata trovata il giorno successivo, e anche se Kerikov era stato costretto a occuparsi di sistemare gli uomini che l’avevano trovata, la sua preoccupazione principale era di trovare dell’altro azoto liquido e metterlo in posizione. Il piano originale del KGB per l’operazione ‘Fiume Nero di Caronte’ aveva previsto ottanta tonnellate di azoto liquido da posizionare in un punto lontano della tratta discendente della condotta che scendeva dalla Brooks Range, cinquanta miglia a nord dell’attuale posizione. Senza quella quantità Kerikov aveva dovuto modificare il piano e piazzarne una quantità inferiore direttamente alla stazione di pompaggio numero cinque. Aveva calcolato i tempi dell’attacco in modo che passassero solo dodici ore tra l’irruzione alla stazione di pompaggio e il rilascio dell’azoto liquido, ma ogni secondo che passavano in quel luogo faceva aumentare le probabilità di venire catturati o di essere costretti a rilasciare l’azoto in anticipo, riducendo i suoi effetti. In un certo senso si rimproverava di non aver detto a Voerhoven di sabotare il punto critico della condotta all’inizio dell’operazione anziché lasciare che quella batteria venisse accoppiata al tubo per ultima. Recarsi sul posto era un rischio calcolato, ma come tutti i calcolatori, Kerikov aveva fatto in modo che tutto giocasse a suo favore.
“Di’ ai tuoi uomini di smettere di aiutare quelli della PEAL a posizionare le batterie. So che questo ci rallenterà, ma ho bisogno di te e delle tue squadre per quando arriverà la reazione degli americani. Ormai sapranno che siamo qui e mi aspetto un contrattacco entro breve.” Kerikov era sicuro di sé. Era di nuovo nel suo elemento naturale. “Preparate i Grail e gli RPG-7 e mandate un mezzo sulla strada a fare da vedetta. Le autorità non hanno avuto abbastanza tempo per organizzare un attacco, e questo ci dà un vantaggio tattico. E fate in modo che i missili facciano centro. Se mancate anche uno solo dei loro elicotteri, potranno chiedere rinforzi via radio. Sono certo che i furgoni che sono andati fuori strada avranno già richiamato l’attenzione della polizia e se i poliziotti verranno informati che qui sta succedendo qualcosa potranno raggiungerci molto in fretta.”
Mentre il gruppo degli attivisti della PEAL era arrivati alla stazione di pompaggio numero cinque a bordo dei pesanti camion che trasportavano l’azoto, Ivan Kerikov, Jan Voerhoven e le due guardie del corpo di Kerikov erano volate alla stazione in elicottero. Kerikov riteneva che se gli americani riuscivano a far atterrare un numero cospicuo di truppe d’assalto, loro avrebbero potuto usare l’elicottero per scappare, lasciando che gli ambientalisti se la sbrogliassero da soli.
Se Voerhoven aveva qualche resistenza a lasciare che i suoi venissero usati come carne da macello, non lo lasciò trasparire. Era là fuori, ad affrontare la tempesta artica, a incoraggiare i suoi uomini come se quella fosse una splendida avventura che tutti loro avrebbero ricordato per gli anni a venire.
Non c’era alcuna possibilità che Kerikov li lasciasse uscire vivi da quella storia, anche se fossero riusciti a sopravvivere all’imminente attacco degli americani.
Sorrise e si accese una sigaretta.